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Il resto era solo mio. Non si può spiegare l'amore. È solo, s'inganna e fatica in se
stesso.
Avrei messo a posto le cose in fretta, senza sperperi inutili. Già domani avrei
chiamato Rodolfo, il nostro amico avvocato, che si accordasse con Elsa. Le avrei
lasciato carta bianca su tutto. Quella creatura che batteva al mio fianco era l'unica
cosa che volevo per me. E ora me la portavo via, la scarrozzavo lungo
quell'autostrada che si era fatta più piana, fasci polverosi di oleandri spuntavano oltre
il guardrail. La luce era cambiata, il giorno s'incuneava verso la sera, i contrasti erano
meno netti ma forse più profondi, il viso di Italia sembrava quasi viola. In basso una
sua mano cadeva semiaperta tra la mia gamba e la sua sul sedile. Raccolsi quella
mano e la tenni stretta. Guai a chi me la tocca, pensai, guai.
Mi fermai in un autogrill, avevo sete e dovevo andare in bagno. Lentamente
trassi la mia spalla da sotto il capo di Italia, che si adagiò sul sedile con un piccolo
soffio del naso. Fuori non faceva affatto freddo, cercai delle monete nelle tasche per
lasciarle nel piatto di latta abbandonato su un tavolino fuori dai gabinetti. Non avevo
spiccioli e non c'era nessuno in giro, così pisciai senza lasciare oboli. Dentro lo snack
bar insieme a me c'era solo un altro avventore. Un uomo robusto, senza cappotto, che
mangiava un panino. Presi un caffè in un bicchiere di plastica, una bottiglia d'acqua
minerale, una scatola di biscotti per Italia, e uscii.
Rimasi sul piazzale a bere il mio caffè, mentre due macchine si rifornivano di
benzina. Un uomo scendeva, allargava le gambe, posava i gomiti sul tetto dell'auto.
C'era un'aria diversa, il sole che non avevo veduto per l'intera giornata si era
affacciato per tramontare. La luce si avvicinava alla terra, la carezzava, e la terra
sembrava gioire di quella benevolenza rosata, come di un finimento prezioso. E
quell'aria insolita, quella luce fiammeggiante annunciavano che il sud era cominciato
davvero. Guardai in fondo all'area di servizio le grosse spazzole azzurre addette al
lavaggio delle auto, che pendevano inoperose. Mi voltai verso la macchina. Sul sedile
Italia era sveglia, mi guardava attraverso il vetro, sorrideva. Risposi a quel sorriso
con un cenno della mano.
Dopo fummo allegri, Italia accese la radio, conosceva le parole di tutte le
canzonette e si mise a inseguirle con quella voce roca, a muovere le spalle. Poi venne
il buio e Italia non cantava più, ascoltavamo una voce che diceva che i mari erano
mossi.
Tremava, tremavano le sue gambe, e le sue mani dimenticate lì in mezzo in quel
magro incavo bianco dove la carne si faceva morbida.
«Perché non ti sei messa le calze?»
«È maggio.»
Alzai il riscaldamento. Dopo poco io sudavo, e Italia non aveva cessato di
tremare.
«Forse è meglio che ci fermiamo a dormire da qualche parte.»
«No.»
«Almeno per mangiare.»
«Non ho fame.»
Guardava fremente la strada davanti a noi che si era fatta buia, e i fari delle
macchine che ci precedevano. Avevamo lasciato l'autostrada e viaggiavamo su una
statale circondata dal silenzio. Italia mi aveva indicato l'uscita, e adesso era lei a
guidarmi, incerta, preoccupata forse, perché con il buio che c'era non riconosceva
nulla, e forse molte cose erano cambiate.
«Da quanto tempo non torni da queste parti?»
«Tanto.»
Aveva riposato, eppure sembrava faticare persino a tenere la testa diritta sul
collo. Allungai una mano sulla sua fronte: scottava.
«Hai la febbre, dobbiamo fermarci.»
Qualche chilometro dopo, in un paese di passaggio (poche case brutte impiccate
sulla strada male illuminata) una scritta fluorescente in verticale diceva: Trattoria e
proseguiva orizzontalmente, a caratteri più piccoli: camere, Zimmer. Accostai la
macchina sullo slargo sterrato al ciglio della strada.
«Hai bisogno della valigia?»
Non rispose, nel buio le mie parole sfiorarono la sua nuca immobile.
«Su, vieni.»
L'aiutai a scendere, mi abbassai fino a lei e le cinsi la vita con un braccio, e
sentii le sue ossa che vibravano mentre si sollevava e un sospiro profondo le scuoteva
il petto, un incitamento a se stessa. Fuori il cielo era abitato da una luna colma, larga,
con una faccia caritatevole che, camminando abbracciati verso l'insegna luminosa, ci
fermammo a guardare. Era così vicina quella luna, che sembrava far parte di noi, non
più del cielo. Così bassa e pesante, perdeva un po' del suo mistero, si era umanizzata.
Entrammo nella trattoria attraverso una porta a vetri, velata da tende sottili. Sulla
destra c'era un bancone da bar deserto, sull'altro lato in una sala larga e triste c'erano
degli uomini seduti qua e là, mangiavano in pochi, i più avevano davanti solo una
caraffa di vino, guardavano in alto un televisore che trasmetteva una partita di calcio.
Ci sedemmo al tavolo più in disparte. Qualcuno mosse gli occhi verso di noi, occhi
senza interesse che tornarono subito sullo schermo.
Una donna uscì dalla cucina asciugandosi le mani nel grembiule. Aveva un volto
villano, aureolato da una chioma grigia e arruffata.
«È possibile mangiare qualcosa?»
«Il cameriere se n'è andato.»
«Degli affettati, un po' di formaggio...»
«Volete anche una minestra di verdura?»
«Grazie» dissi, sorpreso per l'inaspettata disponibilità della donna.
«Ve la scaldo.»
«Dormire? È possibile dormire?"
La donna fissò Italia più del dovuto:
«Quante notti?»
Italia non mangiò che pochi cucchiai di minestra. Guardavo lo scurore dei
capelli corti, al quale non mi ero ancora abituato, il volto dimagrito, fatto di incavi, di
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