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Per il momento, ero interessato a catturare la caratteri-stica più peculiare di Belinda: la naturalezza con la
quale era venuta a letto con me, la franchezza con la quale aveva provato piacere. Quello era il punto
cruciale della nudità. E quella naturalezza e quella franchezza le davano potere.
Ma lei non si deve in nessun caso preoccupare per quei quadri, poiché nessuno li vedrà. Su questo
potevo darle le mie garanzie. Che risata al pensiero di cosa sarebbe successo alla mia carriera se
qualcuno li avesse visti. Oh, troppo buffo, ma no, non sarebbe mai accaduto.
Ricavai facilmente la sua faccia dalle fotografie, che formavano tutte insieme una vera mappa di linee e
propor-zioni. E lavorai a velocità raddoppiata, come sempre mi accadeva quando componevo i quadri
scuri. Ogni cosa mi dava sensazioni meravigliose. Esageravo con i colori, cremosi e densi e luccicanti, e il
quadro le rassomigliava in maniera abbagliante, e il pennello correva sui dettagli, e tutta la mia abilità si
manifestava senza il più piccolo intralcio da parte della razionalità.
Il suo corpo naturalmente potevo ricostruirlo unica-mente sulla base del ricordo: i seni un po' grossi in
rapporto all'ossatura minuta, i capezzoli piccoli, rosa chiaro, i peli radi del pube, non più di un triangolino.
Colore del fumo. C'erano certo delle inesattezze. Ma era la faccia il punto cruciale; la faccia esprime il
carattere. L'incurvatura delle spalle nude, la curva alta dei polpacci, tutte queste cose me le riconfigurai
pensando a quello che avevo provato toccan-dole. E baciandole.
Tutto procedeva bene.
Intorno alla mezzanotte avevo una tela gigante quasi completa con lei e il cavallo, ed ero così esultante
che avrei potuto dipingere ancora a lungo senza fermarmi, tranne che per bere un caffè, accendere una
sigaretta, farmi un giro lì intorno. Intorno alle due di notte ritoccai gli ultimi dettagli. Ora il cavallo era bello
quanto lei. Ne avevo riprodotto la criniera scolpita, le narici svasate, la briglia con i falsi gioielli e con l'oro
dipinto che si staccava.
L'opera era completa, decisamente. Ed era così fotogra-ficamente vera come nessun'altra cosa io avessi
mai dipinto: lei seduta là, in una debole fosca luce color bronzo Rembrandt. Di una vitalità allucinante,
tuttavia finemente stiliz-zata mediante una minuziosa attenzione a ogni dettaglio.
Non avrei cambiato niente neanche se fosse entrata in quel momento e avesse posato nuda per me. Era
proprio lei. Era Belinda - la ragazzina che aveva fatto l'amore con me due volte, evidentemente perché lo
voleva - quella che stava seduta là nuda, che mi fissava, e mi domandava: Cosa?
«Perché ti senti così in colpa per il fatto che mi stai toccando?».
Perché ti sto usando, piccola mia. Poiché un artista usa ogni cosa.
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Quando il pomeriggio successivo tornai dalla mia pas-seggiata in macchina attraverso l'Haight, c'era un
suo bigliettino nella cassetta della posta.
«Sono venuta e me ne sono andata - Belinda».
Per la prima volta nella mia vita per poco non trapassai il muro con un pugno. Immediatamente misi le
chiavi di casa in una busta, vi segnai sopra il suo nome e la misi nella cassetta. Non sarebbe più rimasta
senza. Qualcun altro naturalmente avrebbe potuto trovarle e svaligiare la casa. Non me ne sarei fottuto.
C'era un catenaccio di sicurezza per lo studio nell'attico, dov'erano tutti i quadri, e un altro per la camera
oscura al piano terra. Per quanto riguarda il resto, bambole e tutto, potevano pure portarselo via.
Quando non passava o chiamava entro le nove di sera, io ricominciavo a lavorare.
Questa volta lei stava inginocchiata nuda accanto alla casa della bambola. Avevo lavorato su di lei per
un po', poi sulla casa della bambola. Come sempre ci volle un sacco di tempo, per riprodurre il tetto
coperto d'assicelle della man-sarda, le fastose finestre, le tendine merlettate. E questi dettagli erano
importanti quanto il fatto che ci fosse Belin-da. Dopodiché attorno a lei doveva essere realizzato tutto il
resto, compreso l'intero sfondo, con i polverosi giocattoli, l'orlo del divano di velluto, il parato a fiori.
Quando la luce del mattino entrò attraverso le finestre, il lavoro era finito. Incisi con la spatola la data sul
colore a olio bagnato, sussurrai «Belinda» e mi addormentai diretta-mente là, sul lettino, sotto il sole del
mattino che scottava, troppo stanco per pensare a coprirmi la testa con un cuscino.
4.
L'ultimo ricevimento importante dell'assemblea dei librai era previsto per quella sera in un pittoresco
vecchio albergo montano di Sausalito. Fu un pranzo ufficiale in onore di Alex Clementine, per lanciare
l'autobiografia che lui aveva orgogliosamente, senza l'aiuto del classico "ne-gro", scritta da solo. E il mio
dovere era né più né meno che essere presente.
Alex era il mio più vecchio amico. Era stato il protago-nista nei film di maggior successo tratti dai
romanzi storici di mia madre, Evelyn e Martedì grasso di sangue. Per anni, nel bene e nel male,
avevamo condiviso un grande affare. E più di recente lo avevo messo in contatto "per il nuovo film" sia
col mio agente letterario sia col mio editore. Settimane fa, m'ero offerto di prelevarlo allo Stanford Court
Hotel, in pieno centro, e condurlo dall'altra parte della baia, al party di Sausalito.
Per fortuna il tempo si manteneva caldo e chiaro, tanto che i newyorchesi si lamentavano dell'abbagliante
veduta della baia di San Francisco. Dal canto suo Alex, con i capelli bianchi, abbronzato dal sole e
vestito impeccabilmente, ci travolgeva con racconti gotici californiani di assassini, suici-di, travestitismo e
follia a Tinseltown.
Naturalmente aveva visto Ramon Novarro soltanto due giorni prima che fosse ucciso da checche, aveva
parlato con Marilyn Monroe solo qualche ora prima del suicidio, si era scazzato con Sai Mineo la notte
prima che lo assassinas-sero, era stato sedotto da un'anonima bellezza a bordo dello yacht di Errol
Flynn, s'era trovato nell'ingresso del Dorchester di Londra mentre portavano via verso l'ospedale Liz
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Taylor con la sua quasi-fatale polmonite, ed "era quasi andato" al party a casa di Sharon Tate, la moglie
di Roman Polanski, proprio la notte che la banda di Charles Manson irruppe e massacrò tutti i presenti.
Ma gli perdonavamo tutte queste balle per le innumerevoli brevi storie autentiche che ci riportava, di
gente che aveva realmente conosciuta. La sua carriera si era svolta nell'arco di quarant'anni, dal suo
primo ruolo di protagoni-sta affiancato da Barbara Stanwyck alla parte di comprima-rio nella nuova
soap Volo Champagne, affiancato da Bon-nie, l'indomabile stella del cinema erotico.
Volo Champagneera il successo-spazzatura del momen-to. E tutti gli chiedevamo di Bonnie.
Negli anni Sessanta era stata la texana che aveva conquistato Parigi, una bella ragazzona bruna di Dallas
che era diventata la regina della Nouvelle Vague francese assie-me a Jean Seberg e a Jane Fonda.
Seberg era morta. Fonda si è ritirata da molto tempo a vita privata. Bonnie invece era rimasta in Europa,
in isolamento, alla Brigitte Bardot, dopo anni di cattivi film spagnoli e italiani mai distribuiti in America.
Era stato il cinema pornografico - Gola profonda, Dietro la porta verde, Il diavolo e la signorina
Jones - a strangolare i film di classe, spesso profondamente erotici, che Bonnie aveva fatti negli anni
Sessanta e che avevano precluso a lei, alla Bardot e ad altre come loro il mercato americano.
Tutti a tavola confessavano di ricordare quei vecchi film, di amarli.
Bonnie: la Marilyn Monroe bruna che scrutava attra-verso grossi occhiali cerchiati di corno quando
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